Appuntamento a Sanski Most
Aveva noleggiato un’automobile tedesca di gran lusso con i sedili in pelle nera e il cruscotto in radica e poco dopo la mezzanotte stava già percorrendo l’autostrada, lasciandosi Innsbruck alle spalle. Si era chiesto il perché di una scelta così vistosa e alla fine aveva dovuto ammettere che quell’auto gli avrebbe garantito un aspetto da turista ricco in vacanza, tenendo lontani gli sguardi indiscreti.
Durante una lunga sessione davanti allo specchio si era studiato a fondo e aveva passato in rassegna i particolari di una faccia che gli risultava via via sempre più estranea; erano passati vent’anni, ma qualcuno avrebbe potuto guardarlo negli occhi e ricordarsi di lui. Gli occhi, due pozze scure, gonfie di fatica e di tristezza, erano rimasti gli stessi, unico tratto del paesaggio a salvarsi dal cataclisma che li aveva investiti.
L’autostrada gli dava una strana sicurezza; anonima, pulita, efficiente e a quell’ora senza traffico; da quando era partito aveva incrociato un camion che trasportava animali –maiali e cavalli che stavano andando al macello– e un uomo molto grasso alla guida di un’utilitaria troppo piccola per lui, con le gomme delle ruote in sofferenza; gli era perfino sembrato di sentirla cigolare sotto il peso eccessivo del conducente.Si era sorpreso a sorridere e con il sole basso negli occhi si era acceso una sigaretta, la prima della giornata.
Aveva divorato chilometri di asfalto fino a Lubiana, quasi con baldanza, poi aveva preso per una strada secondaria, svoltando all’improvviso, stravolgendo il piano di viaggio. Aveva rallentato. L’aveva presa molto comoda guadagnando tempo. Solo dopo aver tergiversato lungo strade secondarie si era deciso a puntare verso la frontiera, quando ormai tutte le deviazioni possibili erano esaurite.
Si era aspettato qualche controllo in più e anche domande; invece niente, al confine il poliziotto si era limitato ad abbassare gli occhiali spessi sulla punta del naso, lo aveva guardato con calma indifferenza, o così gli era sembrato, e con un gesto pacato gli aveva restituito il passaporto.
Mise in marcia ed entrò lentamente, quasi a passo d’uomo. Si accorse che non era più in Europa; ogni cosa glielo confermava: la terra aveva un aspetto brullo, l’asfalto della strada era scrostato e interrotto da pezze di diverse tonalità di grigio - pensò a certe coperte fatte con gli avanzi di lana - le case erano decrepite, come se non ci abitasse più nessuno. In lontananza scorse - o era la sua immaginazione? - i minareti di Bihać avvolti da una foschia insolita che conferiva alla città un aspetto fiabesco.
Branko non ricordava che il cielo bosniaco fosse così grande e solenne e si stupì di non averlo salvato tra le immagini che la voragine nera e vuota della guerra aveva cancellato; o forse si era nascosto in qualche angolo oscuro e polveroso della memoria, al solo scopo di conservarsi intatto, pronto a risorgere ancora più maestoso e vivido non appena se ne fosse presentata l’occasione.
Attraversò il ponte sul fiume, un riverbero di luce dallo specchietto retrovisore lo costrinse a fermarsi e a scendere; la bellezza delle insenature e degli isolotti non era nulla rispetto alla stupefacente trasparenza dell’acqua che rivelava un complesso mondo sommerso fatto da rocce e piccoli rilievi coperti da alghe e strati di travertino che restituivano all’acqua colorazioni irreali. Stupito di poterlo ancora fare, si mise a piangere travolto dalla bellezza del fiume Una e dal ricordo delle estati luminose che aveva trascorso nella grande casa dei nonni materni. Si asciugò gli occhi e il naso con il dorso della mano, rapido e senza grazia, guardò l’orologio e tornò verso l’auto. Aveva ancora un po’ di chilometri per Sanski Most.
Arrivò che era già buio e si rimproverò per non aver rispettato la tabella di marcia. Girò a vuoto senza riuscire a riconoscere le strade e le piazze, poi finalmente trovò il fiume e la grande moschea. Pensando a Innsbruck e a tutte le città straniere dove aveva vissuto, si stupì di scoprire che tutte erano attraversate da un fiume. Non era un caso, lo sapeva, in tutti i posti in cui era stato, il suo corpo continuava a cercare la beatitudine di quei bagni. Decise di non presentarsi all’albergo dove aveva prenotato una camera: era troppo tardi, sarebbe passato l’indomani per saldare il conto. Decise che avrebbe dormito in macchina.
Raggiunse la via dove sorgeva il centro Sejkovaca, era lì che gli avevano scritto di presentarsi. Cercò il numero civico e si stupì di trovare una casa a due piani, si era aspettato un posto più grande. Forse aveva capito male, forse avevano sbagliato a comunicargli l’indirizzo. Parcheggiò la macchina in una strada parallela, abbastanza buia e tranquilla e sistemò una coperta sul sedile posteriore. Uscì per fumarsi una sigaretta. L’aria era fredda.
Forse avrebbe nevicato e lui si era portato solo vestiti di mezza stagione. Avrebbe comprato un cappotto di lana a buon mercato, si rassicurò. Poi rientrò in macchina e lasciando il motore al minimo fece partire il riscaldamento. I sedili erano comodi e mettendosi in posizione fetale avrebbe potuto riposarsi.
Durante la preparazione del viaggio, era riuscito a mantenersi freddo e a calcolare i pro e i contro con il giusto distacco. Ma essere lì, a pochi passi da loro, era un’altra cosa e lui non era pronto. Stremato dal viaggio, dormì profondamente un paio di ore e alle prime luci dell’alba fu svegliato dalla fila di persone che confluiva verso il fondo della strada. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, ma se lo era immaginato diverso. Aveva sperato che le procedure burocratiche lo avrebbero aiutato: qualche firma e qualche dichiarazione resa a un pubblico ufficiale, invece no. Tutta quella gente era lì per il suo stesso motivo, e si era portata anche i bambini.
Alcuni di loro, che erano già arrivati, giocavano a biglie sul lastricato del cimitero. Altri, a cavalcioni sul muricciolo, agitavano le gambe falciando con gli zoccoli i grossi ciuffi d’ortica spuntati tra la breve cinta e le ultime tombe. Giunto all’angolo con la via, vi si affacciò con un’ansia tormentosa, guardò quella casa e subito distolse gli occhi. Una lunga coda di persone, attendeva davanti al portoncino ancora chiuso. Accanto alla casa, collegato da un piazzale scuro di terra battuta, sorgeva un capannone. Si mise in coda e nel silenzio freddo della campagna tutt’intorno, fu costretto ad ascoltare l’affanno del suo respiro.
Dopo aver firmato alcuni documenti nel piccolo ufficio dell’abitazione, fu accompagnato al capannone. «Mi segua», lo invitò un addetto del centro sfiorandogli una spalla. «Faccia attenzione», lo avvertì, mostrandogli con un cenno del capo le teche allineate sul pavimento e accatastate lungo le pareti.
La vista gli si offuscò. Nelle teche a terra li vide. Non li riconobbe però. Non subito, almeno. Pensò che un volta erano stati un loro. Una volta avevano nomi e cognomi, un indirizzo dove farsi mandare la corrispondenza e anche una città dove crescere. E una vita, fatta di giorni, di stagioni, di sogni. Con un senso, o qualcosa che si potesse raccontare. Ma di fronte a tutti quei frammenti, si sgretolavano tutte le storie e tutte le vite. Pensò ai pezzi dei dinosauri messi insieme dai paleontologi, si aggrappò per un momento a quell’immagine tranquillizzante. Il lavoro era lo stesso; identificare, catalogare, assemblare. Ancora per poco riuscì a mantenere i pensieri in ordine. L’orrore gli perforò lo stomaco come un pugno quando vide i crani disposti lungo mensole numerate.
L’uomo lo accompagnò verso un pannello su cui erano appuntati elenchi di nomi; passarono accanto a teche più piccole. Guardava, non capiva perché lo avessero portato lì. Cercava frammenti di pensieri, si aggrappava a pezzi di frasi pronunciate poco prima davanti ai responsabili del centro: «Stavamo bene, prima del Novantadue a Prijedor la vita era dolce». «D’estate si andava a casa dei nonni a Bihać». «Con mia madre facevamo il bagno nel fiume». «Sì mio padre era serbo». «Dopo l’incidente la mamma si è risposata con Hamza». «Avevo sei anni». «Poi sono nati mio fratello Qasim e mia sorella Azra». «Non sono più tornato a Prjedor, no». «Mi spiace, non so niente della miniera». «Li ho protetti, ho cercato». «Non so che cosa è successo». «Vivo a Innsbruck».
Il flusso dei pensieri si interruppe, la vista gli si offuscò, fece appena in tempo ad accasciarsi su una sedia accanto alle teche dei bambini. Qualcuno doveva averlo preso mentre si lasciava cadere e qualcuno doveva averlo accompagnato fuori dal capannone sostenendolo, ma questo non se lo ricordava. Quando si rimise in auto, si accorse di avere un bisogno urgente di fumare. Anche se aveva la bocca riarsa, aspirò con avidità e in pochi minuti finì la sigaretta.
Prima di arrivare a Prjedor finì il pacchetto e ne cominciò un altro. Aveva lo stomaco in subbuglio, forse avrebbe dovuto fermarsi, mangiare qualcosa di secco, ma tutto quello che riusciva a fare era guidare e fumare, con la testa vuota, senza riuscire a pensare a niente di preciso. Come un automa teneva gli occhi fissi sulla strada, di tanto in tanto li sollevava verso il fiume che scorreva a destra. Il cielo si era coperto e nuvole cariche di pioggia e neve oscuravano la campagna. Era sa poco passato mezzogiorno, ma le ombre si erano infittite e il parabrezza inquadrava immagini in bianco e nero avvolte dalla nebbia.
Entrò in città e dopo vari tentativi ritrovò la via. La casa non la riconobbe subito, qualcuno aveva aggiunto una veranda sulla facciata principale e aggiunto qualcosa sul lato del giardino. Dovevano aver fatto dei lavori anche all’interno perché adesso le porte di ingresso erano due. Il vecchio capanno degli attrezzi era sparito e il ciliegio con l’altalena, dove lui spingeva Qasim e Azra da piccoli, era stato reciso; rimaneva solo la base del tronco utilizzata dai nuovi vicini per appoggiare un nanetto di finto marmo. Bussò e disse alla ragazza bionda col pancione che lui aveva abitato lì, che aveva vissuto in quella casa con la sua famiglia. Vedendola impallidire la rassicurò: «Sono tutti morti», disse, «non si preoccupi. Do solo un’occhiata e vado subito». Lei chiamò qualcuno sul retro, i due confabularono un po’, poi la ragazza tornò dicendo a Branko che andava bene, di aspettare un attimo che il padre si dava una sistemata e lo accompagnava.
L’appartamento era all’ultimo piano: un piccolo soggiorno, una piccola sala da pranzo, una piccola camera da letto e un bagno. Il soggiorno era pieno fino alle porte di mobili decisamente troppo grandi, rivestiti di gobelin, per cui muoversi significava inciampare di continuo in scene di dame a passeggio nei giardini di Versailles. Il solo quadro era una fotografia troppo ingrandita, che rappresentava una gallina seduta su una roccia sfocata.
Branko non riusciva a orientarsi; cercava di ricordare la posizione delle stanze, della cucina e del salotto, ma non riconosceva più gli spazi. Si concentrò sugli oggetti, nella speranza di trovare qualcosa di noto. «Chi l’ha fatta questa fotografia?» chiese, giusto per dire qualcosa e togliere l’uomo dall’imbarazzo. «È opera di un pazzo furioso», rispose il vecchio. Poi aggiunse tentando di fare lo spiritoso: «Di qualche matto scappato da un manicomio nei dintorni». Branko accennò a un sorriso, giusto per dare soddisfazione al nuovo padrone di casa.
Stava per lasciare l’appartamento quando, guardando attraverso l’anticamera scorse una piccola seggiola che reggeva un vaso cinese di finto antiquariato. Si fermò; quella era la sediolina di Azra. Quando lui le faceva le trecce - cosa avrebbe dato per toccare i suoi capelli lunghi e morbidi, biondissimi – lei si sedeva lì. Reclinava dolcemente il capo e si lasciava pettinare a lungo, poi dava istruzioni su come intrecciarle i capelli.
«Quanto vuole per quella seggiola?», domandò a bruciapelo. Pagò e se ne andò. Il vecchio non feve domande e incassò il denaro, ripiegandoselo nelle tasche come un fazzoletto.
Sapeva che il vecchio avrebbe voluto sapere qualcosa in più. Ma lui era mortalmente stanco e l'altro capì che ne avrebbe cavato solo bugie. Solo dopo averlo salutato, voltandosi a guardarlo, Branko si accorse che all’uomo mancava il piede destro e forse anche un pezzo di gamba a giudicare dalla rigidità dei movimenti. I pantaloni di fustagno coprivano bene e se non fosse stato per il movimento innaturale della camminata, Branko non se ne sarebbe accorto. Respirò con il naso, stringendosi la seggiola sul petto.
Anche la nebbia e il buio erano svaniti lasciando il posto a un freddo e limpido pomeriggio invernale; la neve intanto stavo coprendo ogni cosa. Grossi fiocchi sospinti dal vento vorticavano sopra gli alberi e le case prima di posarsi a terra. Branko rabbrividendo sollevò il bavero della giacca leggera. In macchina avrebbe acceso il riscaldamento. Pensò a Innsbruck, alla sua vita lassù. Si chiese se aveva senso tornare. Si domandò che cosa ne era stato di lui, di tutti loro e se aver ritrovato le ossa di Azra e Qasim poteva avere qualche significato. Si domandò, ancora una volta, se aveva fatto davvero il possibile per salvarli. O se aveva lasciato che le cose andassero come dovevano andare. Erano passati vent’anni.
Molte cose importanti, erano accadute, cose importanti che avevano travolto tutto. Guardò la neve con gratitudine. Ancora qualche ora e avrebbe coperto le tombe e le fosse senza nome. Un manto bianco come un sudario avrebbe presto ricoperto l’intera Bosnia Erzegovina. La miniera dei massacri, vicino a casa sua, sarebbe stata per sempre cancellata dalla faccia della terra.
Oltrepassò la macchina, i piedi già affondavano nella neve di qualche centimetro. Camminò ancora, fino a raggiungere il parco. Lo attraversò e finalmente vide il fiume. Si disse ancora una volta che tutte le città della sua vita erano attraversate da un fiume. Prese il sentiero che lo costeggiava e camminò. Si voltò a guardare le impronte già ricoperte dalla neve. Benedisse dentro di sé quel cielo e quelle nuvole. Sapeva che lì a poco non ci sarebbe stata più alcuna traccia.