Bhopal 20 anni dopo
La notte tra il 2 e il 3 Dicembre 1984, Bhopal, capitale dello stato indiano del Madhya Pradesh, è colpita dal più grave disastro chimico della storia: quaranta tonnellate di gas letali fuoriescono dalla fabbrica americana di pesticidi della Union Carbide che spinti dal vento contaminano una vasta area densamente popolata. Nei primi giorni dall'incidente, migliaia di persone muoiono a causa dell'esposizione ai gas e a centinaia si riversano nelle corsie sovraffollate dell'Hamidia Hospital, l'ospedale principale della città.
Medici, infermieri, autisti di ambulanza sono contaminati dal solo contatto con i vestito degli intossicati. Tra i più colpiti, gli abitanti delle bidonville intorno al perimetro della fabbrica che muoiono soffocati nelle loro case. Si salveranno solo coloro che sceglieranno,
per puro caso o per istinto, di scappare verso le colline, in direzione opposta al vento che contaminerà, quella notte e negli anni successivi, più di 40 km quadrati di terreno.
Negli ultimi vent'anni il gas ha continuato a uccidere: più di ventimila persone sono morte, dopo malattie dolorose e incurabili, e oltre mezzo milione di sopravvissuti soffrono di gravi problemi di salute.
L'area della fabbrica non è mai stata decontaminata. I bambini giocano con sostanze che ancora giacciono sul terreno e all'interno dei capannoni: Ddt, Sevin, e sostanze chimiche che filtrano nel terreno e raggiungono le falde idriche. Ad Atal Ayub Nagar, una delle bidonville più colpite, Akash, scavalca il muro di cinta , insieme con gli amici di scorribande, ed entra nell'area della fabbrica. Che è off-limits, ma solo per gli stranieri. Dodici anni, occhi neri come la pece e un buco nella gola che gli impedisce di parlare. Due anni fa lo hanno operato e gli hanno fatto la tracheostomia. "Cough, breath problems" mi spiegano i suoi compagni: tosse e problemi respiratori. Scavalchiamo il muro, Akash in testa. Siamo dentro: strana sensazione, sudore, paura di toccare e respirare qualcosa di sbagliato. Tutto è rimasto come lo hanno lasciato gli operai e i tecnici in fuga: lo stabilimento dove veniva stoccato il Sevin, (il pesticida prodotto dalla multinazionale Union Carbide), è integro: solo le strutture metalliche sono arrugginite. I serbatoi sono ancora lì insieme all'intricato sistema di tubature, rubinetti e regolatori di pressione. Nei depositi, ci sono centinaia di sacchi di Ddt, e sotto tettoie mal riparate, cumuli di Sevin. Affondato nell'erba alta, con l'aspetto di un sottomarino in avarìa, giace la vasca E 610 che conteneva il Mic, l'isocianato di metile, il famigerato gas tossico che uccise migliaia di persone nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984. Nella sala di controllo gli strumenti di misurazione sono bloccati sui valori di quella notte. Tutto è congelato nel tempo: anche le sale dei laboratori, ormai invasi dalle ragnatele, conservano ampolle e preparati chimici. Sui muri dei depositi campeggiano scritte politiche e dediche romantiche, assieme a disegni ingenui e stilizzati dei bambini. Oltre alle coppie in cerca di intimità e ai ragazzini in cerca di avventura e di pezzi da collezionare, ci sono anche le mucche che si riposano sui sacchi di Ddt che giacciono aperti in uno dei capannoni . Un luogo molto frequentato, dunque. E molto contaminato. Secondo dati forniti dal governo locale, infatti, ci sarebbero almeno 25 sostanze chimiche pericolose nell'area della fabbrica e nelle zone circostanti.
Akash vive con quattro fratelli in una stanza coperta dal tetto di lamiera e plastica. Il suo nome in hindi significa cielo. Un nome che avrebbe dovuto essere di buon auspicio, secondo i desideri della madre, Kamesh Bai. "Akash è il più grave ma anche gli altri miei figli stanno male: tosse, mal di petto, arrossamenti della pelle, mal di stomaco, vomito e diarrea". Ci mostra l'acqua che ogni giorno gli abitanti della bidonville pompano dal sottosuolo: "Vede? E' blu. La assaggi. Sa di cherosene, di benzina". L'acqua del sottosuolo è contaminata e nelle bidonville a ridosso della fabbrica non è ancora stata realizzata una rete idrica.
Autocisterne riforniscono i quartieri con acqua che viene pompata direttamente dal lago di Bhopal. Non tutti i giorni, però. Così gli abitanti sono costretti a utilizzare l'acqua delle pompe manuali (le hand pump) che viene attinta dal sottosuolo. Le pompe sono state tutte contrassegnate con la vernice rossa, in segno di pericolo. Inutilmente. Le analisi condotte dal "Bhopal Fact Finding Mission" nel 2002 hanno rivelato che l'acqua analizzata nella fabbrica e nelle bidonville vicine, contiene metalli pesanti, pesticidi, benzene, cloroformio e piombo in concentrazioni pericolosamente al di sopra dei limiti. Risulta che anche il latte materno contenga mercurio, piombo e organoclorine. Le donne hanno problemi mestruali e riproduttivi. I bambini presentano gravi ritardi nella crescita. Haseena Bee, è una di loro. Vive, come Akash, nella bidonville di Atal Ayub Nagar. Ha 46 anni e da quando si è trasferita qui, nel 1986, spinta come tante altre famiglie dalla possibilità di vivere senza pagare tasse e servizi, la sua salute è decisamente peggiorata. Ha dolori addominali continui, emicrania cronica, strane bolle che ogni tanto fioriscono sulla pelle e problemi alla tiroide, che le gonfia la gola come una pallina da ping-pong. Ma la sua preoccupazione più grande sono i figli e i nipoti; in particolare, la piccola Neha che, a 5 anni compiuti, pesa solo 7 chili e mezzo: "Non riesce a crescere. Ho paura che non ce la faccia. Quando beviamo l'acqua delle pompe stiamo tutti male. Ma per lei è ancora più dura: resta inebetita e debole per giorni".
Per Haseena Bee e per gli abitanti delle bidonville di Bhopal c'è un solo posto sicuro dove andare: la Sambahvna clinic diretta da Satinah Sarangi
che, con il suo staff di medici e ginecologi, provvede a fornire cure gratuite alle vittime del gas. Fondata con i proventi della vendita del libro di Lapierre e Moro "Mezzanotte e cinque a Bhopal". Sin dal mattino presto i pazienti cominciano ad accalcarsi fuori dalla clinica. Molte le donne, in gran parte musulmane, che diligentemente aspettano il loro turno. La dottoressa Devinder Kaur, ginecologa, è una persona di cui hanno grande fiducia: "Le donne hanno gravi problemi: i ritardi mestruali sono i più diffusi. Ma anche aborti, problemi riproduttivi. Ci sono donne che non riescono più ad avere bambini e per la cultura indiana e in particolare per quella musulmana, che qui a Bhopal è dominante (Bhopal è la seconda città musulmana dopo Hyderabad in India), è un handicap molto grave". Al secondo piano si svolgono le sedute di yoga, mentre nel dispensario, diretto da Kamal, si distribuiscono farmaci tradizionali e medicine ayurvediche. Qui vicino, accanto alla nuova clinica in costruzione che verrà inaugurata il prossimo 2 dicembre, giorno in cui si ricordano i venti anni dalla tragedia, c'è un giardino in cui vengono coltivate piante le cui proprietà sono alla base della medicina ayurvedica. A dirigerlo c'è Terry, 42 anni, un'agronoma che ha lasciato la carriera a Washington per dedicarsi alle coltivazioni biologiche e mediche, prima in Africa, e dal 1996, qui a Bhopal. La aiutano Ratna Son, che sperimenta su di sé gli effetti delle piante, e i giardinieri Mukesh e Sunil Kumar, tutti gravemente colpiti dagli effetti del gas.
La clinica non è solo centro di cura e di supporto psicologico, ma anche sede del "Bhopal group of information and action", uno dei gruppi più attivi nella denuncia di ritardi e gravi omissioni da parte delle autorità indiane e delle responsabilità della Dow Chemical, che ha acquistato la Union Carbide, e che si rifiuta di procedere alla decontaminazione dell'area intorno e dentro la fabbrica.
Fino ad oggi, a nessuna autorità indipendente è stato consentito di svolgere una raccolta di dati che consentisse una analisi epidemiologica nel lungo periodo. Mentre nella Chernobyl della perestroika è stato possibile per i rappresentanti dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità) raccogliere campioni e visitare in modo accurato la popolazione locale, qui a Bhopal c'è stata una levata di scudi.
Satinah Sarangi, tra i promotori di varie indagini indipendenti, ha denunciato le forti opposizioni incontrate: "E' stato particolarmente difficile raccogliere i campioni. Gli sforzi fatti dai tre maggiori ospedali pubblici di Bhopal si sono rivelati futili a causa delle severe restrizioni imposte dal governo che ha voluto soltanto agenzie proprie".
"Il grave inquinamento di acqua e suolo ad opera della Union Carbide -denuncia Sarangi - non si esaurisce alla tragedia del 1982: la multinazionale americana infatti era già operativa nel 1969 a Bhopal e da allora ha scaricato sostanze tossiche solide liquide e gassose, nelle aree limitrofe, creando anche quel famigerato laghetto a Blue Moon Colony, noto col nome di Solar evaporation pond collegato alla fabbrica con un condotto sotterraneo attraverso cui defluivano i veleni della produzione di pesticidi".
Bhopal in questi giorni è in fermento: le manifestazioni e le proteste non si contano. Da quest'estate è stato tutto un susseguirsi di azioni
dimostrative. Ma anche di momenti di giubilo. Come è accaduto il 19 luglio scorso quando, finalmente, la Corte Suprema indiana ha emesso una sentenza che ha imposto al governo di distribuire 327 milioni di dollari tra i 570 mila sopravvissuti al disastro. Centinaia di persone sono scese per le strade, danzando davanti alla statua dedicata alle vittime, e alla gigantesca scritta "Hung Anderson" (impicca Anderson, il presidente dell'UC) che campeggia sul muro di fronte alla fabbrica a J.P. Nagar..
Gli attivisti delle organizzazioni che lottano da anni per ottenere il risarcimento, tra i quali Satinah Sarangi, Rashida Bee e Champa Devi Shukla, (due combattive attiviste di Bhopal, loro stesse vittime del gas, che sono state insignite del Gold Environmental Prize 2004 per l'Asia, per il loro impegno a favore dell'ambiente), Isfan Syed leader di un'organizzazione che lotta per le vittime del gas, e Shahid Noor, presidente
dell'organizzazione che riunisce gli orfani di Bhopal, hanno ricevuto da questa vittoria uno slancio ulteriore.
Adesso il fronte su cui concentrare le forze è lotta per l'acqua, culminata nella dimostrazione del 20 luglio: un corteo formato principalmente
da donne e bambini è sfilato fino alla residenza del Primo Ministro dello Stato del Madhya Pradesh, la signora Uma Barthi. I loro slogan scandivano una semplicissima richiesta: acqua non contaminata.
Quel giorno le donne di Bhopal non hanno potuto andare oltre i cancelli che delimitano la residenza del Primo Ministro. Uma Barthi era impegnata in un importante e irrinunciabile incontro con una rappresentanza giapponese appena giunta nella capitale del Madhya Pradesh.
Motivo dell'incontro: promuovere le relazioni con i paesi culturalmente affini. Dal 20 luglio sono in corso manifestazioni per ottenere la costruzione di una rete idrica che raggiunga le bidonville che sorgono vicino alla fabbrica della Union Carbide. La battaglia per l'acqua e per la decontaminazione del suolo continua.