Devadasi, le schiave di Dio

KURNOOL - “All’età di  sei anni sono stata violentata da un vicino. A 11 i miei genitori mi hanno offerto alla dea Yellamma perché, essendo impura, non avrebbero potuto trovare nessuno disposto a sposarmi. Così sono diventata una devadasi, una prostituta di dio”. Gaurammah, 22 anni, vive nel villaggio di Kosigi, nell’estremo lembo occidentale dello Stato dell’Andhra Pradesh, uno degli ultimi sperduti villaggi a ridosso del confine con il Karnataka, India meridionale. In questa capanna, sotto un tetto di lamiera, fino a due anni fa riceveva gli uomini del villaggio. “Sono tornata dai miei genitori: mi sarei uccisa piuttosto che continuare così. Adesso lavoro nei campi, la mia vita è cambiata, voglio dimenticare”.

Ci troviamo nel cuore di tenebre dell’India rurale, dove ogni anno vengono sacrificate alla dea centinaia di ragazze-bambine. Il tempio di Yellamma si trova appena fuori il villaggio di Kosigi: è un edificio a pianta rettangolare, due campanelle cerimoniali nello spiazzo polveroso antistante, un viavai discreto di fedeli che portano fiori, pezzi di cocco e riso alla divinità. A vegliare sul sacro luogo, c’è Mr. Murti, 40 anni, una famiglia che partorisce sacerdoti da generazioni.  Fino al 1988,  quando la pratica religiosa era ancora legale, Murti officiava il culto di iniziazione. “La cerimonia era molto vivace – ricorda -  le devadasi ballavano e cantavano, e tutto il villaggio partecipava. Adesso la cerimonia si svolge in casa, in privato. Io mi limito a dare la benedizione alle nuove devadasi tutti i martedì e giovedì, dalle 17 alle 20”.

Anche se il rito d’iniziazione è cambiato, la condizione delle devadasi è rimasta immutata. Solo a  Kosigi e nel vicino villaggio di Kandukuru ci sono almeno 400 donne che praticano il culto di Yellamma e, secondo le stime fornite dall’ufficio governativo del Welfare Centre di Hyderabad, nello stato dell’Andhra Pradesh ci sarebbero 16.624 devadasi. Ma potrebbero essere molte di più, considerando che l’anagrafe in molti villaggi non esiste.

Sono poverissime, sono spesso analfabete e non sanno che la pratica religiosa è illegale dal 1988. E anche se lo sapessero, si guarderebbero bene dallo sporgere denuncia. Non servirebbe a niente: i poliziotti sono tra i loro più assidui frequentatori.

Come conferma  Rada Pradeshni, combattiva attivista e responsabile delle sezione di Kosigi della SDRWC India (Society for Development of rural Women and Children), una Ong che segue un progetto di recupero della devadasi: “E’ un circolo vizioso: spesso le bambine ereditano il ruolo dalla madre. La nascita di una femmina in famiglie povere è quasi sempre una disgrazia, un peso economico. Se non ci si può permettere di pagare loro la dote o si ha bisogno di denaro, la soluzione è offrire la propria figlia a Yellamma. Un'altra aggravante è la casta. Sono quasi tutte dalit, e appartengono alle sottocaste dei Madiga , dei Mala e dei Donmara, come si chiamano gli intoccabili in questa zona dell’Andhra Pradesh. Si diventa devadasi anche per convinzione religiosa. Le bambine con i capelli ricci o fini sono viste come un dono della dea, e quelle che svengono durante le estenuanti cerimonie nel villaggio, sono considerate “possedute” e offerte a Yemmalla. Per molte famiglie avere una figlia devadasi è una benedizione e una garanzia di prosperità. A questo si deve aggiungere un sistema basato sullo strapotere dei signorotti locali che qui appartengono a una sottocasta molto influente: sono i Boia, hanno il controllo delle terre, dell’economia e della politica locale. Spesso approfittano delle ragazze e poi, per continuare a godere dei loro favori, o pagano le famiglie oppure fanno pressioni perché diventino devadasi”.

Difficilissimo cambiare vita, oppresse come sono da un sistema millenario di credenze e tradizioni, divisioni in caste e dogmi sociali che rendono difficile ogni tentativo di ricatto.

Il “Muto”, la collana con i pendagli sacri che le devadasi ricevono durante la cerimonia di “iniziazione”, è un segnale di riconoscimento per i maschi della comunità, un simbolo che diventa uno stigma e una catena.

Dalla penombra del tempio compare una ragazza avvolta in un sari blu: ha il viso pesto e gli occhi gonfi. Si chiama  Yellam Marera, ha 18 anni ed è devadasi. “Mia madre era malata di lebbra – racconta -  e mi ha portato al tempio all’età di 7 anni sperando che io potessi provvedere ai bisogni della famiglia. Mio padre nel frattempo ha lasciato mia madre e si è risposato. Adesso i parenti della nuova moglie vogliono che io me ne vada da casa e mi picchiano continuamente per avere i miei soldi. Io li mantengo da anni  ma loro pretendono sempre più denaro. Non so cosa ne sarà di me e dei miei 4 figli”.

Figli avuti da uomini diversi. Nessuno dei quali ha accettato il riconoscimento dei bambini. “Uno di loro, è mio zio, il fratello di mia madre. Sposato e con figli, adesso deve badare alla sua famiglia”. Una devadasi non può sposarsi, e gli uomini non hanno alcun obbligo nei suoi confronti.

Una volta diventate devadasi, poche riescono ad andarsene dal tempio. Uligama, 30 anni, ce l’ha fatta, anche con l’aiuto degli operatori di SDRWC India che le hanno offerto sostegno psicologico ed economico permettendole di superare le prime difficili fasi: “Avevo sei anni quando la mia famiglia e il sacerdote del tempio si sono accordati. Mi ricordo la cerimonia come se fosse ieri. Prima a casa mia, gli incensi, i mantra, la vestizione e la consegna della collana. Poi la cerimonia al tempio. Per me da allora è stato come avere una catena. Quando sono cresciuta ho cominciato a respingere gli uomini. Così sono scappata e a 12 anni ho cominciato a cavarmela da sola, lavorando nei campi e vivendo di espedienti. Sono stata fortunata perché dopo un po’ di tempo sono riuscita a tornare a casa. Adesso mantengo mia madre e una sorella handicappata. Le altre tre sorelle sono sposate”.

Ci accompagna fino al tempio di Yellamma. Con lei c’è un’altra ex devadasi, Anandamma, una sua cara amica che ha lottato come lei per uscire dal sistema: “Mia madre era devadasi e io ero l’unica figlia. Non avevamo soldi e all’età di sette anni mia madre mi ha offerto a Yellamma. Ho lottato con tutte le mie forze. Ho dovuto sopportare anni terribili, poi però, con un piccolo sussidio del governo e il sostegno degli operatori di SDRWC India  ho aperto un negozietto e adesso mi mantengo da sola e riesco anche a pagare gli studi ai miei tre figli”. Uligama e Anandamma sono diventate famose nel villaggio, due modelli da seguire.

A cinque ore di jeep da Kosigi, tornando verso Kurnool, c’è  uno dei quartieri più poveri della città, lo slum di Budabara Peta. . E’ quasi buio e quando arriviamo e le stradine sterrate, che si snodano tra le baracche, sono deserte. Davanti al tempio di Yellamma gli  ultimi fedeli si attardano recitando preghiere davanti all’immagine della dea che, sorridendo, affonda una mano nella criniera del leone che le sta accovacciato accanto.

Nell’incerto baluginìo delle candele, si intravedono alcune figure femminili, disposte in cerchio intorno a un grande piatto, ai piedi dell’altarino che si trova sul retro del tempio. Stanno mangiando del riso, in silenzio. Sono anziane. I loro nomi - Sheshamma, Goranklamma e Sawaramma - portano tutti il suffisso “amma” che le rende identificabili. Sono devadasi da una vita intera, e ora troppo vecchie e malate per poter continuare a lavorare. Non le vuole più nessuno: i  parenti le hanno cacciate di  casa perché non sono più remunerative. Così, di notte, si rifugiano nel tempio di Yellamma. Si avvolgono nei sari, riparandosi dall’umidità  e si danno conforto. Vivono di elemosina. “Mettiamo il Muto, la collana di Yellama, in un canestro e andiamo di porta in porta – racconta Binagamma- Stiamo giorni interi senza mangiare. Molte di noi sono malate ma non ci sono i soldi per le medicine”.

Malattie, fame e botte.  Renaka, 42 anni, ne sa qualcosa:  “Dopo la morte di mio padre sono stata portata al tempio. Mia madre, rimasta sola con due figli maschi e me, ha deciso di dedicarmi a Yellamma. Avevo 10 anni quando è successo. I miei fratelli vogliono soldi e mi picchiano e anche i miei figli si vergognano di me. Tutta la famiglia mi minaccia perché non guadagno abbastanza. Me ne sono andata. Adesso vivo al tempio e vivo di elemosina”.

E’ ormai notte fonda . All’improvviso, dall’interno del tempio, compare una sagoma piccola, minuta. E’ Kamala, 40 anni, il viso percorso da rughe profonde.  Se ne è stata in disparte per tutto il tempo ma adesso non ce la fa più. Non parla: è muta dalla nascita. Implora qualcosa con un rantolo soffocato. Tutto quello che non riesce a dire lo grida con gli occhi. Le altre donne ci seguono,  in un silenzioso mesto corteo. “Namasté”, “Namasté”, decine di mani giunte e un inchino in avanti sono l’ultimo saluto. Mentre l’urlo muto di Kamala continua a riecheggiare. Nell’oscurità.