Istruzioni di base prima di lasciare il pianeta

E' ormai pomeriggio inoltrato quando arriviamo alle cave di Pirsa Peta vicino al villaggio di Kethavaram, Andhra Pradesh. Il sole sta tramontando ma il caldo è
ancora opprimente: in uno dei crateri in cui si ricavano lastre di pietra, la temperatura è ancora altissima. Qui i raggi cadono a picco sulla pietraia, le lastre si fanno incandescenti e l'aria diventa irrespirabile; quando il sole è allo zenith  lavorare nelle viscere della cava, senza un filo d'aria, diventa un incubo.

Qui centinaia di famiglie, rimuovono tonnellate di scaglie di pietra e scarti di ghiaia. Il terreno viene scavato e le pareti assottigliate giorno dopo giorno: ma il materiale di risulta deve essere rimosso e questo è compito di donne e bambini che, con ceste o a mano, compiono migliaia di viaggi dalla cava alla zona di deposito. Centinaia di Sisifo trascorrono l'intera giornata, dall'alba al tramonto, in questo girone infernale, riempiendosi i polmoni di polvere di silicio.

Nareno ha 11 anni e ha cominciato a lavorare qui due anni fa, insieme al fratello maggiore,  poco più grande di lui. Non gli piace fare il cavatore: "Volevo continuare la scuola ma a casa i soldi non c'erano. Mio padre beve e noi dobbiamo dare una mano. Anche mia madre lavora qui". La sera, quando torna al villaggio, dopo 8-10 ore in cava, ha spesso la febbre, e una tosse secca che gli fa scoppiare i polmoni. "Ci sono notti in cui nessuno dei tre riesce a chiudere occhio: mia madre è spesso malata e mio fratello ci sono giorni in cui non riesce a muovere neppure un muscolo".

Chi nasce a  Kethavam ha solo tre carte da giocare, quasi tutte perdenti: lavorare nei campi, comprare una mucca o una capra (ma il costo è proibitivo) oppure cavare la pietra a  Pirsa Peta. Con la certezza di  ammalarsi dopo qualche anno. Di enfisema, di fibrosi, o tubercolosi polmonare. Studi condotti sui cavatori indiani hanno denunciato un allarmante tasso di malattia e di mortalità: il 55% dei cavatori contrae la silicosi e buona parte di loro muore a 35 anni dopo un'esposizione media di 12 anni alle polveri. 

Mascherine, elmetti, cuffie auricolari  e guanti non fanno parte della dotazione e chiederne conto equivale a domandarsi perché nel deserto non ci sia l'acqua.
Ognuno, con diverse gradazioni di sarcasmo, fornisce la sua risposta: "Costerebbero troppo" dice Nareno, "Non importa a nessuno se ci ammaliamo. C'è sempre il ricambio" aggiunge  l'addetto alla macchina fresatrice, Nallugotla, 23 anni, che lavora in cava da  quando è ragazzino.

Farsi male è molto facile qui a Pira Peta.  Samel, 30 anni che sembrano 50, ha perso quattro dita in questa cava: "Basta un  momento di distrazione e le dita possono saltare". Della mano sinistra gli rimane solo il mignolo le prime falangi dell'indice e del medio. Si apre la camicia e se la lascia cadere lungo le spalle lasciando scoperta una ferita lunga e sottile che gli corre lungo la scapola destra: "Vedi questa cicatrice? Me la sono fatta trasportando una lastra. Il panno era appoggiato male, è scivolato via e la lastra mi ha tagliato come un coltello la schiena". Il proprietario della cava lo ha portato con la sua auto in ospedale a Kurnool e l'ha fatto medicare. "E' stato gentile, in altre cave qui vicino so di gente che è stata lasciata a morire dissanguata". Ovviamente, non è nemmeno il caso di accennare a indennizzi. "Sono stato una settimana a casa. Poi sono tornato e ho ripreso, anche se non sono più svelto come prima. Non ho ricevuto nessun risarcimento, anzi, ho perso 7 giorni di stipendio".

Una giornata di otto ore a Pirsa Peta è pagata 100 rupie al giorno, ma  70 tornano  al proprietario del terreno per l'affitto della cava e per il noleggio degli strumenti di lavoro. Nelle mani dei cavatori restano solo 30 rupie, pari a 60 centesimi di euro.   Nareno, così come le donne e i suoi piccoli compagni di lavoro guadagnano 10 euro in meno: il loro compito consiste nella raccolta del materiale di scarto e nel suo trasferimento dall'area attiva della cava agli spiazzi dove la
collina è stata ormai scavata fino all'osso. Cheram, 10 anni, ha
cominciato a lavorare in cava da un anno. Di notte si sveglia in preda alle convulsioni. Nessuno sa che cos'abbia e nessun medico finora l'ha visitato. Racconta i giorni passati  a trasportare cesti di ghiaia e sassi: "A volte mi sembra un brutto sogno. Cerco
di svegliarmi ma non ci riesco. Anche la notte mi sembra di essere qui a Pirsa Peta e non riesco a dormire". Con lui lavora anche Siddama, di 8 anni. E' stato solo pochi mesi a scuola: "So contare fino a dieci, e anche scrivere il mio nome. Stavo per imparare a leggere. Magari un giorno Cheram mi insegna". "Vero
Cheram?". Magari in uno di quei periodi in cui piove e la cava si trasforma in una gigantesca pozza di fango e detriti costringendo i
lavoratori a desistere.

Ma il monsone quest'anno tarda e Siddama e Cheram non sono ancora riusciti a prendersi qualche giorno di riposo. Il sole sta calando ma a Pirsa Peta  decine di
mazze e scalpelli continuano ad accanirsi contro la roccia. Sulla maglietta di un cavatore una scritta che esprime molto più di un manifesto politico: "basic  instruction before leaving earth", istruzioni di base prima di lasciare il pianeta.