Arabeschi russi
Ancora in viaggio in questa terra sconfinata, di cui Mosca è un contenimento, il necessario e ragionevole limite a un orizzonte scandito dall'infinito ripetersi di betulle. Boschi e campi, izbe sperdute come isole, piccole stazioni dai muri scrostati; occhi e pensieri seguono il ritmico procedere del treno nel suo lento avanzare da Mosca a San Pietroburgo. Nevica ormai da alcune ore e i finestrini sembrano rimodellati dal ghiaccio. Fioche luci di sperduti villaggi in lontananza, confuse visioni nella tormenta.
Potrebbe essere il nostro, il treno di quella straordinaria stampa che mi ha inchiodato, con la sua potenza simbolica, nella terza sala del museo della rivoluzione di Mosca. In basso a sinistra giacciono i soldati, feriti e allo stremo, e il treno a vapore passa sopra di loro, schiacciandoli. Lungo il terrapieno, cavalli feriti senza più cavalieri, divise lacere, arti feriti. Ma il treno va, proseguendo la sua inarrestabile corsa. Boschi boschi/campi campi/boschi boschi. Mi addormento e sogno il guardarobiere smilzo e rugoso che ci ha accolto la prima sera a Mosca, in un ristorante sulla via Majakovskaia. La divisa grigia, profilata in rosso, gli ballava sulle spalle e lungo le braccia, coprendo una schiena curva. “Quest'uomo è stanco” ho pensato quando ci è venuto incontro. “Stanchissimo”. Ha preso i nostri cappotti, le sciarpe e i berretti di pelo. “Spassiba” gli ho detto, imbarazzata, Uscendo gli volevo lasciare una lauta mancia, ma non ancora avvezza al cambio, gli ho dato meno di quello che avrei voluto. Molto meno. E mi rimorde ancora, la sensazione di averlo umiliato senza volerlo. Mi perseguita anche nel sonno, l'errore sciocco che non avrei voluto commettere. Non nei confronti di un uomo così stanco.
Il treno rallenta e i freni stridono sulle rotaie. Torno ad aprire gli occhi. La luce che illumina il vagone, sembra ondeggiare, si spegne per un attimo poi si riaccende. Alla fine si spegne. Un moto di inquietudine percorre i passeggeri. Brusii, bisbiglii, nessuno osa parlare. Siamo sospesi, in mezzo al nulla. Il silenzio è totale, quasi riesco a sentire la neve appoggiarsi sul finestrino e tamburellare, trascinata da raffiche impetuose di vento, sul tetto del treno.
Mi assopisco di nuovo, sentendomi assurdamente protetta dallo sconfinato silenzio buio di questo pomeriggio di ghiaccio. Mi raggomitolo sotto il cappotto e sono di nuovo sulla Tverskaia, a Mosca, al museo della rivoluzione. Chissà perché continuo a tornare qui, anche nel sonno. Credo che tutte le stampe e le foto viste il giorno prima, mi abbiano scavato dentro un'immagine precisa e tragica, un sentimento di profonda pena e comprensione la gente di qui sfruttata e ingannata per secoli. Dopo aver calzato per generazioni enormi scarpe intrecciate con canapa essiccata e dopo essere stati conteggiati come “anime” dai propri signori e padroni, alcuni uomini e donne ridotti allo stremo hanno tentato di manifestare il proprio scontento. Sono andati in piazza, a fianco dei loro bambini. Era il 1905 e le guardie dello zar hanno risposto con una carneficina. Nel quadro, che gronda sangue, al museo sulla Tverskaia, ci sono i vecchi, ci sono le donne. Una sta fuggendo, cercando di mettere in salvo il proprio bambino.
Un sussulto improvviso, seguito da un ansimare metallico, mi sveglia. Il treno, dopo qualche scossone, si rimette in moto e nel vagone si riaccendono le luci. Due facce arrossate mi scrutano. Due facce piene, gli zigomi pronunciati, gli occhi di un azzurro invernale. Saranno fratello e sorella? Lui respira male, chiuso nella camicia buona troppo stretta. Lei tiene un libro appoggiato sopra il grande petto, morbidamente custodito sotto una golfino d'angora. Ha lo sguardo materno delle babuski che ho incontrato in questi giorni. Le babuski dei musei, che ti vengono incontro, parlandoti in russo, una lingua che nella loro bocca ha la dolcezza di una tenera ninna nanna. Nei musei russi, d'inverno, con il fango nelle strade, si devono calzare dei sacchettini blu all'ingresso, come quando si entra in sala rianimazione. Non solo, in ogni sala è buona norma seguire il percorso indicato. Se poi si decide di fare di testa propria, seguendo un percorso mentale alternativo, si viene subito gentilmente rimessi in carreggiata. La babuska di turno, abbandona il suo libro, si alza dalla sedia e, con gentile fermezza, ti consegna il foglio plastificato con la pianta della sala e l'elenco dettagliato delle opere. Ho sempre trovato divertente questa forma di rigore metodologico applicata alla visita dei musei. E con ancora maggiore divertimento, ho spesso trasgredito. Di proposito. Non con intento polemico, ma solo per ascoltare, una volta di più, la soavità della lingua russa.
Il treno rallenta, si ferma. Fuori è già buio, nonostante siano solo le cinque del pomeriggio. Siamo in mezzo al nulla, solo qualche flebile luce vibra in lontananza. Riemergono le immagini viste al museo della rivoluzione. Dopo la sala del 1905, come in una rapida dissolvenza temporale, le foto documentano il grande cambiamento: ai contadini, lasciate le ciabattacce di canapa e calzati gli stivali e le tute da operai, vengono finalmente spalancate le porte di un nuovo, radioso futuro. Infarcito di felicità: non solo per sé e per le proprie famiglie, ma per tutto il popolo russo, anzi per l'intera umanità. Solo un popolo come quello russo, portato per propria natura, alla fantasticheria e votato ai pensieri più profondi, poteva aderire con tutto se stesso a questo progetto. Ci hanno creduto tutti, o quasi. Anche i grandi: anche Pasternak, anche Eisentein, anche Majakovski. Almeno all'inizio. La grande utopia aveva finalmente trovato un luogo e un tempo precisi in cui realizzarsi: la Russia, anzi, la grande anima russa.
Fissando la neve ormai scura, fuori dal finestrino, penso al berretto di lana che ho comprato stamattina in metrò, alla Puskinskaja, e alla felicità della venditrice per avermi resa contenta. Ha voluto che mi guardassi nello specchio e quando le ho detto che era proprio quello che stavo cercando, si è aperta in un sorriso radioso. Se non ci fosse stata la vetrinetta a separarci, sono sicura che mi avrebbe abbracciato. Con le sue mani gonfie e arrossate dal gelo, mi avrebbe stretto forte e forse anche baciato.
Richiudo gli occhi, e mi ritrovo davanti al museo Majakovskij. Ospitato in una struttura sghemba, è storto, contorto, con superfici oblique e oggetti che pendono dai soffitti, sfidando la gravità. Dappertutto lettere incastonate in cuspidi di vetro appuntite, telefoni, tavoli pendenti con le gambe di diverse altezze, la macchina da scrivere che sembra scivolare da un momento all'altro. In una vetrinetta tutta storta ci sono il cappotto, le scarpe, il cappello e il bastone di Majakovskij. Sono stati collocati in modo da dare la sensazione del movimento, come se il corpo invisibile del poeta si stesse precipitando chissà dove. Anche qui ho trovato una babuska solerte e rigorosa, nelle vesti di guida. Dopo essersi accertata che tutti i presenti la ascoltassero, ha cominciato a raccontare della mania che affliggeva Majakovskij. “Si proteggeva le mani indossando perennemente i guanti. Per evitare contatti, non stringeva la mano, mai. In caso di persone importanti, stringeva loro solo due dita. Una forma di igienismo che gli dovette complicare la vita non poco”. Forse è cominciato così il suo “Schiaffo al gusto del pubblico” o forse da una mania personale è nata una corrente artistico-letteraria tra le più originali del '900. Dal dolore e della perdita, dalla dissonanza inconciliabile con il resto del mondo possono derivare straordinari percorsi interiori. Soprattutto se il terreno in cui si cresce è fertile, soprattutto nella Mosca del 1914 in cui tutto si era già messo in movimento, in cui il germe del cambiamento era già nelle menti recettive dei suoi compagni di avventura. Il cubofutursimo di Majakovskij è puro movimento, creazione scoppiettante, spumeggiante poetare, provocazione in versi e in prosa, pungolo verso il vecchio. Lo chiamano il vento della Storia. Quando comincia a soffiare, rincuora gli animi più sensibili e puri, che di fronte alle intollerabili ingiustizie implorano il cambiamento, poi si tramuta in bufera e comincia a mettere paura, poi diventa tempesta e sradica alberi e scoperchia case e devasta, divella, distrugge. "Vogliamo che la parola esploda nel discorso come una mina e urli come il dolore di una ferita e sghignazzi come un urrà di vittoria!".
La sua Nuvola in calzoni, continua a volteggiare e mentre il treno sferraglia verso San Pietroburgo, brandelli di parole mi raggiungono in viaggio: “Il vostro pensiero/sognante sul cervello rammollito/come un lecché rimpinguato su un unto sofà/stuzzicherò contro l'insanguinato brandello del cuore:/ mordace e impudente/schernirò a sazietà./ Non c'è nel mio animo un solo capello canuto,/ e nemmeno senile tenerezza!/ Intronando l'universo con la possanza della mia voce,/cammino – bello/ventiduenne.
E poi che cosa ti è capitato caro Vladimir Vladimirovic? Ti sei isolato sempre più. Il mondo nuovo che avevi sognato era più grande, più nobile, molto più rivoluzionario di quello creato dalla rivoluzione bolscevica. Che cosa ti è successo? Il Politburo ha ucciso la poesia, una generazione ha dissipato i suoi poeti, il soviet supremo ha congelato il movimento. E tu? A trentasette anni eri ancora bello, vigoroso, stimato. Possibile che l'amore per un'attrice, pur giovane pur bellissima, ti abbia dato il colpo di grazia? O è stato uno scalpellìo continuo, inesorabile, cominciato molti molti anni prima, quando, ancora piccolo, hai perso il tuo caro papà guardaboschi e da allora hai dovuto proseguire da solo, pieno di rabbia e di poetico furore? Solo tu puoi saperlo, solo tu che ci hai insegnato in modo nuovo come far versi.
«A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol'dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un'esistenza decorosa, ti ringrazio. Come si dice, l'incidente è chiuso. La barca dell'amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici».
Il treno rallenta, si ferma. “Nizhni Novgorod! Novgorod!”. Fuori è ormai notte. Tra poco saremo a San Pietroburgo. E' ora di cena. Ci trasferiamo nel vagone ristorante. I tavoli, apparecchiati con tovaglie ricamate sui bordi, hanno un'aria familiare. Anche i tovaglioli e i vasetti con i fiori di plastica, rimandano a un'atmosfera raccolta, casalinga. Ordiniamo gulash e té. La vodka arriva continuamente, e non serve dire di no. Tra poco saremo a San Pietroburgo e in una notte come questa chi non beve vodka può solo essere un pazzo. Beviamo, rassegnati, per far contenti i camerieri. Anche i russi che siedono accanto al nostro tavolo, ci lanciano sguardi di compiaciuta approvazione ogni volta che svuotiamo i bicchieri.
Guardo fuori, cercando una luce, un profilo. Ma non trovo nulla. Così rivado a Mosca, al laghetto del patriarca. Voglio ripensare a tutto quello che ho vissuto e pensato a Mosca e metterlo nero su bianco, perché so già che a San Pietroburgo mi aspettano incontri e visioni, fantasticherie e ricordi . A San Pietroburgo mi aspetta Dostoevskij e per essere pronta a questo incontro, atteso e accarezzato per anni, devo prima lasciarmi Mosca alle spalle. E con lei Bulgakov, il diavolo e le sue streghe.
Il Laghetto del Patriarca - In fondo a un reticolo di stradine che si snodano alle spalle della Tverskaia, si trova un'oasi tranquilla. Il lago ghiacciato circondato da un ampio viale alberato, è una pausa dal caos. Qualche mamma con la carrozzina, sfida la giornata gelida, mentre alcuni anziani passeggiano, senza fretta. Mi appoggio a un albero e prendo qualche appunto sul taccuino. Veloce, perché le mani, senza guanti, diventano presto insensibili. Una coppia mi raggiunge e mi si avvicina. Sono anziani, bianchi come la neve, con una pelle così trasparente e sottile che un soffio di vento potrebbe lacerarla. Lei mi guarda con intensità, mi sorride e comincia a parlarmi. Con slancio, con entusiasmo. Colgo poche parole “Patriarsie” e “Bulgakov”. Bene, è chiaro che siamo qui per lo stesso motivo. Farfuglio qualcosa, ma la donna continua a parlarmi. Come mi spiace di non capire bene, di non cogliere le sfumature. Poi comincia lui, all'inizio piano, come se stesse scaldando la voce, poi sempre più animato. Li adoro; è straordinario e commuovente l'amore dei russi per i grandi autori. Basta pronunciare il nome di Tolstoi o Dostoevskij per provocare un avvicinamento palpabile, come se il fatto di aver letto le stesse pagine e aver meditato sugli stessi problemi filosofici, potesse ierun qualche modo, di per sé, garantire una comunanza spirituale profonda. Alla fine mi abbracciano, commossi.
Al numero 10 della Bolsodovaja, c'è la casa di Bulgalov. In fondo a un cortile fangoso, una porticina conduce al piccolo appartamento. Salgo pochi scalini e vengo raggiunta dal suono acuto di un violino. Lo sapevo che prima o poi lo avrei incontrato: eccolo Woland, sotto forma di spiritello musicale. Mi ha seguito dagli stagni Patriarsie (eppure m'era sembrato un lago poco fa) e ora, battendo con l'archetto sulle corde come un forsennato, attacca una sfrenata danza tzigana. Prendo dalla borsa la crema di Asasiello e, ancora più bella e ringiovanita, invisibile e a cavallo di una scopa, spicco il volo sopra i tetti di Mosca. Metto a soqquadro la casa di Latunnski, accarezzo un bimbo che piange, e mi precipito al gran ballo del Venerdì Santo. Accolgo, senza battere ciglio, gli oscuri figuri che escono dalla porta dell'Inferno e, finalmente...ritrovo lui, dopo tanto tempo. Lui che se n'era andato, per inseguire il suo sogno di gloria. Anche il suo manoscritto, divorato dalle fiamme, viene restituito integro. Beviamo poi un bicchiere dell'antico vino Falerno, moriamo e rinasciamo immortali. Poi voliamo da Pilato, che da secoli si strugge per aver condannato ingiustamente Jeshua. Il Maestro chiede e ottiene che l'antico procuratore della Giudea, insieme al suo cane, sia liberato dall'atroce tormento. Mentre il treno sfreccia verso San Pietroburgo, una frase martella, come un'ossessiva nota di violino: “Voglio che mi sia reso subito, immediatamente, il mio amato Maestro”.
E torna la pace, per poco, fino a quando sopra i cieli di Mosca, rettili giganti volteggiano e si scagliano sulle case. “Le grigie autoblindo, dotate di stani tubi sporgenti e con i fianchi dipinti di teschi bianchi sormontati dalle scritte ””Gas” e “Armi chimiche”. “Aiutateci fratelli”, si gridava dai marciapiedi, “Fate fuori i rettili. Salvate Mosca!”.L'artiglieria militare bombarda la foresta intorno a Mozajsk per distruggere le uova di coccodrillo, deposte in grandi quantità in tutti gli anfratti. Una divisione di cavalleria caucasica intanto aveva brillantemente sconfitto numerosi branchi di struzzi. E la folla inferocita irrompe nell'istituto e si scaglia contro il professor Pankrat, sfondandogli la testa. “Tu li hai fatti nascere quei rettili!”. Solo un'ondata di gelo in pieno Ferragosto salvò Mosca. E il raggio rosso? Distrutto. Eppure ancora attivo, attivissimo. Con nomi diversi, maneggiato da altri. Rettili giganti hanno assaltato questa mattina la casa di un giornalista moscovita perché ha osato scrivere che la crisi economica potrebbe creare tensioni e manifestazioni di scontento in piazza per la disoccupazione e l'aumento dei prezzi. L'ufficio politico della stampa lo ha accusato di essere un provocatore, di aver scritto un pezzo che “potrebbe istigare alla ribellione e ai tumulti”. I mostruosi rettili hanno assassinato la grande Anna Stepanovna Politavskaia e le uova fatali di Bulgakov continuano a far nascere esseri mostruosi.
Ancora Mosca, ancora per poche ore. Ci sono altri due grandi scrittori a cui rendere omaggio. Il treno per San Pietroburgo parte tra poco e la stazione è lontana. Busso alla porta di Checov, ma lui non c'è. Il giardino dei ciliegi è coperto di neve e la babuska della portineria non ne vuole sapere di farmi entrare. Sarà per un'altra volta. Mi dispiace un bel po', ma mi consolo, pensando che in albergo mi aspettano i suoi racconti umoristici. E a casa lo ritroverò nei suoi libri.
Torno verso il laghetto dei Patriarchi e imbocco la Spiridorovna, fino a raggiungere la casa di Gorkij, un autore che per la verità ho frequentato poco. In fondo, intravedo una costruzione più grande. E' una villa elegante e dalle ampie finestre in stile Art Nouveau. Entro e rimango di stucco. Mi aspettavo stanze sobrie, invece gli interni sono spettacolari. Dall'anticamera del piano terra si aprono due grandi stanze, la sala da pranzo e la biblioteca. Incredibile la scala che conduce al piano superiore: il marmo si piega come materiale morbido, semiliquido che cola come panna dal pianerottolo verso il pianterreno. In un gioco complicato di forme e di panneggi, ricorda un gelato gigantesco o il ripieno di crema pasticciera di un succulento bigné.
Salgo, calzando un paio di ciabattone che mi ha consegnato il guardiano. Al primo piano c'è l'appartamento del figlio di Gorkij e famiglia. Salendo ancora, una sorpresa: nel sottotetto, nel punto più alto della casa, si apre una cappellina per la preghiera. E' ben nascosta, all'esterno non se ne sospetta l'esistenza. Spoglia, con scritte e simboli degli apostoli e di Gesù (un bue, un leone e un pesce) e un piccolo altare in centro. Quando Gorki ricevette la casa da Stalin, questo angolo fu distrutto, in ossequio al principio della religione come "oppio del popolo". La cappellina venne poi restaurata negli anni Novanta e riportata al suo aspetto originario, quando la casa apparteneva ancora a Riabuscinskij, un ricchissimo imprenditore. Ma in omaggio all'homo sovieticus, insieme alla vecchia proprietà, ai tempi di Gorkij furono cancellate anche le tracce dell'antico culto, ormai considerato obsoleto oltre che dannoso.
Torno al piano terra, e scorgo una porta laterale che prima non avevo notato. Conduce allo studiolo di Gorkij. Sulla scrivania ci sono i suoi oggetti; gli occhiali, le penne, i calamai, i grandi fogli, ormai ingialliti, sui quali scriveva. Dalla vetrata si intravede la strada che si affaccia su una chiesetta. La casa è stata donata a Gorkij dal governo centrale. In questa casa, ha vissuto, con la famiglia, dal 1931 fino alla morte, dopo il suo ritorno da Sorrento dove era stato per curare la tubercolosi. Quindi solo 5 anni. E' qui che completa il suo ultimo romanzo, il “La vita di Klim Samgin” ed è da questa casa esce per ricevere gli onori al I Congresso degli Scrittori Sovietici.
Certo, adesso non è più simpatico a nessuno, soprattutto dopo quello che ne ha scritto Solzenicyn. Ma sarà vero? Forse quello che i detenuti di un gulag hanno scambiato per indifferenza, era scioccato silenzio, incredulo abisso, sconfinato e paralizzante orrore. Mi ritrovo a pensare che no, non è possibile, non per chi ha scritto “Konovalov” o L'albergo dei poveri” e le centinaia di pagine piene di amore per questo popolo così sfortunato.
La sua opera lo salva, così come la sua vita durissima di orfano e vagabondo. Passo mentalmente in rassegna, i momenti più importanti della sua tormentata esistenza. Orfano a soli 12 anni, si rifugia dalla nonna, una straordinaria narratrice di storie popolari. Quando la nonna muore lui ha 19 anni ed è di nuovo solo al mondo. Tenta il suicidio, ma si salva, quasi per miracolo. Da quel momento comincia un pellegrinaggio inquieto e avventuroso attraverso l'intera Russia. Fornaio, guardiano notturno, scaricatore di porto, sguattero su un battello in navigazione sul fiume Volga. Impara a scrivere dal cuoco di bordo. E da allora non smette più. Il materiale, sterminato e potente, glielo aveva già fornito la nonna, il resto lo prende dalla vita. Si firma Gorkij, che in russo significa “amaro”.
Il tempo a Mosca è scaduto. Partiamo verso la stazione Leningradskij. Nello squallido ristorantino, con linoleum sul pavimento e fotografie scolorite della “Bella Italia”, facciamo uno spuntino. Si parte per San Pietroburgo! Non prima di aver fatto esperienza dei mitici bagni collettivi che ancora sopravvivono in molte stazioni di età sovietica: una fila di turche separate da un sottilissimo pannello, con un solo rotolo di carta igienica appeso fuori, in comune. Fondamentale ricordarsi di prendere la carta prima di entrare. Per i turisti sprovveduti, una solerte babuska indica il prezioso rotolo all'ingresso, gesticolando e sorridendo.
Dopo un controllo accurato dei passaporti, veniamo accompagnati al nostro vagone. Si parte! Appena usciti dalla stazione, il treno si perde nell'immensa pianura già in penombra. Verso San Pietroburgo, città-visione fatta di palazzi e strade costruiti sul nulla, circondata da canali di ghiaccio e neve, stretta come in una morsa implacabile dal Mar Baltico, “la città più astratta e premeditata di tutto il globo terrestre”.
SAN PIETROBURGO
Appena usciti dalla stazione, una bufera di neve ci investe. A malapena riusciamo a tenere gli occhi aperti. Decidiamo di prendere la metropolitana; l'albergo è a sole due fermate.
Improvvisamente, trascinando la valigia, avverto una fitta dolorosa al bassoventre. Come un piccolo crampo o una puntura di spillo. Usciamo dalla Metro e percorriamo un tratto della Prospettiva Nevskij, affollatissima. E' proprio come me l'aspettavo, uguale a come l'ho immaginata tante volte leggendo le descrizioni dettagliate di Dosteoevskij e Gogol. I passanti camminano frettolosi, si urtano, si scusano e continuano la loro corsa, le auto sfrecciano sollevando schizzi di fango e il trambusto è tale che bisogna alzare la voce per farsi sentire dal proprio vicino.
In una traversa, ecco il nostro alberghetto. Arriviamo stanchi, ma soddisfatti di avercela fatta da soli, senza ricorrere a un taxi. L'accoglienza è calorosa. La camera si trova al piano terra; è grande, bianca e ha la finestra che si affaccia sul cortile interno. Il silenzio è totale, interrotto solo dal tintinnìo delle stoviglie. Presto tutto tace. Sento distintamente la neve cadere, lenta, sul davanzale e nel cortile. La pancia mi fa ancora male. Penso che potrebbe essere... sì, potrebbe essere il primo segnale lanciato da un esserino di poche cellule che, nelle buie e calde profondità del mio ventre, sta cominciando a formarsi. Ma è solo un pensiero. Mi addormento quasi subito, cullando l'immagine di un piccolino dentro di me.
Ci svegliamo molto tardi. Scosto le tende e, sorpresa, è ancora buio. La neve è caduta abbondante e il manto che copre il cortile è intatto. Dopo una colazione abbondante a base di uova e arringhe salatissime, usciamo. La bellissima chiesa del Sangue Versato è vicina, eccola laggiù in fondo alla traversa appena dietro l'albergo. Ci incamminiamo, con passo lento e affaticato. La neve è alta e ci sono tratti ghiacciati sul marciapiedi; conviene procedere con cautela. E' una chiesa sontuosa, un barocco elegantissimo, molto colorato e vivace. E' molto simile alla chiesa di San Basilio in fondo alla Piazza Rossa. Forse più slanciata e raffinata nei particolari. All'interno, ci accolgono pareti interamente affrescate. Il pavimento è un complicatissimo gioco di intarsio marmoreo. Mi colpisce una lunetta, sulla navata di destra: in un Paradiso amazzonico, Adamo ed Eva sono circondati da animali esotici e da uccelli preistorici. E' il Paradiso più succulento e accogliente che abbia mai visto. Usciamo e imbocchiamo il parco che si apre sul retro del Museo Russo. Gli alberi sono inghirlandati di neve fresca e un piccolo sentiero conduce alla scalinata. In un vialetto laterale, una donna minuta e tremante, porge una mano colma di briciole ai passerotti affamati. Gli uccellini si appoggiano sulle esili dita e becchettano, volando subito via. Ci teniamo a distanza per non disturbare.
Da qui, attraverso rami piegati sotto il peso della neve, la Chiesa del Sangue Versato, con i suoi pennacchi e i tetti a cipolla colorati, appare irreale, costruzione fantasiosa, visione. Camminiamo riavvicinandoci alla chiesa; mi chiedo in quale punto sia stato ucciso lo zar Alessandro II. Ecco, laggiù, mentre la carrozza correva lungo l'alzaia del canale Gribaedova tornando verso il Palazzo d'Inverno, il piano regicida di Narodnaja Volja trovò il suo compimento. Una prima bomba bloccò il convoglio; lo zar scese e mentre la guardia cosacca arrestava il primo attentatore, un'altra bomba uccise Alessandro II. Era il 1881 e la Russia era abitata da milioni di anime, di contadini servi, la cui vita era legata a filo doppio al volere dei loro padroni. Alessandro II, in fondo, a ben vedere, era stato uno dei migliori zar che la Russia avesse avuto fino a quel momento. L'emancipazione della servitù era cominciata grazie a lui, e i nobili avevano dovuto accettare il cambiamento.
Percorriamo il canale tornando verso la Prospettiva Nevskij, camminando nella stessa direzione della carrozza dello zar. Chissà se il 1° marzo di quell'anno la neve c'era ancora? Sì, probabilmente sì. Doveva esserci una grande macchia di sangue, quello dello zar mischiato a quello del primo attentatore, dilaniati insieme dalla seconda bomba. Attentatori e complici furono catturati e giustiziati e, con loro, anche Sofia Perovskaja, la loro guida. Una donnina dalla faccia smunta e pallida, con una bocca insoddisfatta, e due occhi obnubilati. Una maestrina-infermierina piena di odio, a cui era capitato di nascere in una famiglia potente e nemica. Dostoevskij ne aveva già fatto il ritratto ne “I Demoni” almeno 10 anni prima. Sofia Perovskaia era fatta della stessa pasta di Pëtr Verchovenskij, ottusa e crudele come chi nella vita persegue un solo scopo, credendo che sia una missione da portare a termine a qualsiasi prezzo. La Russia ne avrebbe avuti tanti di Demoni come loro, e il grande Dostoevskij ne aveva già scandagliato le pieghe dell'anima. E ci sarebbero stati anche alcuni Nikolaj Stavrogi, ma molto meno, Demoni tormentati dalla propria coscienza.
Eccoci di nuovo sulla Prospettiva Nevskij. Subito siamo sospinti da una fiumana di persone. Mi lascio trasportare. Guardo gli uomini e mi invento un gioco: chi è Piskarjov e chi invece è Pirogof? E Claudio che mi cammina accanto chi è dei due? O è tutt'e due mischiati? Potrò sopportare la parte di Pirogov che è in lui, riuscirò ad accettarla? A un tratto ci ritroviamo sulla Dvorcovaja Ploščad' e il vento gelido che soffia dal fiume spazza via tutti i pensieri: sceglierò Piskarjov e combatterò Pirogof; per il resto, che sia come dev'essere. Entro nella più bella piazza del mondo con passo trionfale. Dio come amo questo posto! Lo amo a tal punto che è come se ci fossi già stata centinaia di volte, come se già ne conoscessi ogni angolo. Andiamo, andiamo! Voglio attraversare il fiume, voglio vedere la Neva ghiacciata e sentire addosso il vento freddo, voglio finalmente perdermi in questa città amniotica!
La Neva scorre sotto di noi, trasportando enormi lastre di giaccio. Fanno paura le acque nere che spumeggiano e gorgogliano al di sotto della superficie ghiacciata. E' presto per il disgelo, ma questo è uno degli inverni più miti degli ultimi anni, così ci hanno detto in albergo. Questo fiume sembra un piccolo mare in tempesta. Entriamo nel Museo della Marina, qui c'è la barca dove ha imparato a navigare Pietro il Grande. E dove si sono esercitati i russi, trasformati in pochi anni in perfetti marinai. E quanti ne ha inghiottiti questo fiume impietoso!
Ecco il Cavaliere di Bronzo che troneggia nella Piazza dei Decabristi, con il braccio alzato verso la Neva e l'Occidente. Ci sono notti in cui si stracca dal piedistallo di pietra e si lancia in folli cavalcate lungo i canali della città. Nelle notti più cupe e nebbiose, la sua ombra corre lungo i muri dei palazzi, e il cavallo infuriato solleva mucchi di neve davanti al Palazzo d'Inverno, nitrendo e scalpitando. Il povero Evghenij, pazzo di dolore, scappa e scappa, anche se sa bene che è inutile, che prima o poi verrà raggiunto. E forse poco gli importa, visto che ha il cuore a pezzi; la Neva si è portata via la sua fidanzata, e senza di lei niente ha più senso. Ma non gli va di darla vinta a quel brutto ceffo di Cavaliere, non gli va di mostrarsi impaurito.
Non importa che mi guardino tutti, lo devo fare. Alzo un pugno verso il Cavaliere di Bronzo e sbotto con tutto l'odio possibile: “Bene, o costruttore miracoloso, ti farò vedere io!”.
Cammino verso la Fortezza di San Pietro e Paolo. Non sono ancora le quattro del pomeriggio e già si fatica a vedere i particolari. Entro, sapendo quello che mi aspetta. Da questo portone sono passati ribelli, oppositori politici, liberi pensatori. Qui sono stati imprigionati Dostoevskij e Gorkij e Bakunin. E forse anche il figlio di Anna Achmatova. Il grande cortile interno è già invaso dalle ombre della sera e le mura che da fuori parevano chiare e rassicuranti, cingono in una morsa gli edifici che si trovano al loro interno. Un ristorante con ampie vetrate lascia intravedere al suo interno tavoli rotondi e poltroncine. Le luci sono abbassate, come se fosse vicina l'ora di chiusura, e gli avventori i muovono come fantasmi da una sala all'altra. Un odore acre di cavolo esce dalle cucine. Più in là c'è la cattedrale, imponente all'esterno ma completamente spoglia dentro. A fianco quella che doveva essere la foresteria o l'Armeria o qualcos'altro. Poco importa ormai perché tutto è stato ricostruito e ripulito; in ogni stanza ci sono pannelli e fotografie, che raccontano la storia della Fortezza. In fondo, lungo il muro che si affaccia sulla Neva, si apre una porticina. So che c'è, ma quasi fatico a trovarla. E oltre questa piccola, inoffensiva porta di legno c'è il corridoio cupo e freddo che conduce alle celle. Accanto a ciascuna, ci sono nomi e fotografie di chi è stato imprigionato qui. Le celle sono minuscole, soffocanti. Le finestrelle, troppo in alto, il pavimento di pietra, il letto pure. Esco e mi investe il freddo della sera. Ha ricominciato a nevicare. In questo momento vorrei che nevicasse per mesi e mesi. Solo una montagna di neve può cancellare col suo biancore questo orrore. Vado verso il fiume, ormai nero, e vedo lo scivolo in pietra, immenso, dove i prigionieri venivano incolonnati e poi fatti salire sui barconi. Percorso un tratto sulla Neva, venivano poi accompagnati alla stazione, tutti in fila, mani e piedi legati con le catene. Destinazione: Siberia. Giovanni Testori ha pianto e maledetto la giustizia degli uomini il giorno in cui ha visto un uomo solo, trascinato per le vie di Lasnigo in catene. E ha cominciato a scrivere, per non smettere mai più. Qui deve essere successo lo stesso a Dostoevskij. Perché scrivere è l'unica difesa contro il potere degli uomini e contro il potere della morte. E qui, in questo luogo d'inferno, i due poteri si erano alleati.
Vedo qualcosa brillare, mi avvicino. Una statua di bronzo luccicante, o forse d'oro. Chi sarebbe questo omino deforme, dalle gambe tropo magre e dal dorso rachitico? Pietro il Grande!? Chi ha osato? O forse... vuoi vedere che … penso a Putin e... mi compiaccio con l'artista, chiunque sia. E' riuscito a realizzare un'immagine degna. Possibile che nessuno se ne sia accorto e abbia protestato? Probabilmente, come spesso capita, nessuno avrà osato mettere in discussione le motivazioni artistiche. E anche se l'imperatore esce per strada in mutande, tutti quanti, per non sembrare degli stupidi, si complimentano con lui per il suo bel vestito.
Riattraversiamo la Neva e ci perdiamo nel reticolato di canali e cortili, fino all'albergo. Mi siedo esausta. Ho voglia di cose salate: mi riempio di aringhe e di palline di caviale rosso con panna. Dio, ne mangerei a tonnellate. Non si può resistere al bligni. Non si può resistere alla moquette morbida di questo albergo, alla tappezzeria anni Settanta, ai tavoli e ai mobili intarsiati, a questo letto duro come il marmo, al troppo caldo nelle stanze. Non si può resistere a questa città improbabile, alla visione dei canali e delle chiese, all'indeterminatezza dell'orizzonte – laggiù oltre quella striscia azzurrognola, dev'esserci il Baltico o la fine della Terra- a queste quinte create dai più bravi architetti del mondo - italiani, con scalpellini italiani al seguito, ebbene sì !- non ci si può opporre al sonno di una città sognata, alla follia di una pazzia realizzata, non si può non arrendersi davanti all'impossibile che viene realizzato, e non con un vago disegno nell'aria ma con tanto di marmi, fregi, colonnati e archi di trionfo. Mi appisolo, di nuovo. E ti sogno, piccolo e ancora indefinito, trasparente e fluttuante. Non voglio ancora affidarmi alla scienza, non voglio essere delusa prima di essermi crogiolata un po' in questo lettone di San Pietroburgo, pensandoti, mentre la neve copre i passi di questa lunga giornata. Mentre il samovar fischia e tutti i treni della mia vita si rimettono in moto. E dormo un sonno lieve e sereno, in attesa...
Il monastero dedicato ad Alexander Nevskij sorge al limite della città e sbarra il passo alla lunghissima Prospettiva Nevskij. Una piazza trafficata e fangosa, accoglie il visitatore. Lo squallore del capolinea è scoraggiante. Tutta questa fatica per un posto simile! Ma basta imboccare una stradina che si snoda sotto un arco, e poi un altro ancora, ed ecco che superato il ponticello sopra un canale ghiacciato si apre il viale che conduce al monastero. San Pietroburgo scompare, e con lei i clacson concitati e la folla. Siamo approdati a un'isola tranquilla, in cui tutti sussurrano e camminano lentamente. La neve qui è tornata immacolata e le tombe nella piazzetta principale ne sono quasi interamente ricoperte. Entriamo nella chiesa rischiarata da centinaia di candele, accolti da un tepore avvolgente. Non penso a quello che sto facendo, lo faccio e basta, mossa da un impulso improvviso. Non mi importa sapere perché e che cosa mi spinga ad andare verso l'icona di una madonna nera, bellissima e lucente. Mi attrae verso di lei una forza irresistibile, magnetica. Forse desidero rendere solenne questo giorno. Forse è una speciale corrispondenza di sguardi e di intenzioni, di sentimenti tra due donne. Su un piccolo tavolo di fronte all'icona, scorgo alcuni fedeli in devota attesa e capisco quello che devo fare. Afferro un foglietto, piccolo e sottile, giallo pergamena scuro, e alla luce delle candele scrivo con una matita mal temperata, la mia richiesta. Se nascerà si chiamerà Stefano..
Usciamo e la neve si è già tinta di azzurro; presto sarà buio. Costeggiando il muro esterno che circonda il monastero, noto un via vai dalla porticina che conduce al piccolo cimitero. Seguo le orme e mi ritrovo davanti alla tomba di Dostoevskij. Mi tremano le gambe e mi viene da piangere. Non me l'aspettavo di incontrarlo così, in un prato fangoso, in una piccola tomba inumidita dalla neve. Avevo pensato di passare prima a casa sua, sul canale Griboedov, e poi andare alla ricerca del vicolo Stoljarnyi - che adesso si chiama Przevalskij - sulla traccia di taverne e localacci frequentati da Raskolnikov. E invece, eccomi qui. Davanti a lui. A quello che rimane; un monumento piccolo per un uomo tanto grande. Immenso. Pensandoci bene, San Pietroburgo e la Russia intera non avrebbero mai potuto contenerlo. Ci sono anime, sì ANIME, che travalicano luoghi e tempi, che non nascono e muoiono semplicemente, come tutti noi. Per me lui è stato il più grande, da sempre, da quando ho letto per la prima volta “Netoscka Nesvanova”. E subito dopo “Povera Gente”. E poi “Umiliati e Offesi” e tutti gli altri romanzi, tutti in un solo fiato, presa da un'ubriacatura mai provata prima, schiacciata sotto il peso di un innamoramento totale, assoluto, che mi toglieva il sonno e la fame.
Avevo trovato la chiave per aprire le porte che mi tenevano chiusa, e per uscire dalla piccola vita che mi era stata destinata. Non avrei dovuto mai più distrarmi dai suoi libri, il mondo in fondo non aveva niente da rivelarmi che io non avessi già vissuto nelle sue pagine.
Sono qui a San Pietroburgo anche per questo, per misurare quanto grande e grave e profonda, sia diventata la distanza dai miei eroici 17 anni. Per calcolare il baratro tra la me stessa di oggi e la grande coraggiosa sognatrice che sono stata. Ero immensa, come la distesa di tempo che mi si stendeva davanti, ero tutto quello che ancora non sarebbe accaduto, ero tutte le possibilità, tutte le vite ancora da vivere. Un arco puntato verso tutti i destini e i futuri, gli incontri e gli amori. Ero Eva, dopo aver mangiato la mela. Senza punizione, senza peccato. Ero nel Paradiso Terrestre della mia giovinezza. Ero Varenka, Netoscka, Nastenka e Katerina Ivanovna, ero Makar Alekseevic, Dolgorukij e il principe Minskij e Ivan Fedorovic e Mitja e Aleksej e anche Raskolnikov. In me c'erano tutte le storie del mondo.