Vento freddo sui campi di Kornool

 

Nuvoloni neri corrono veloci sopra la sterminata pianura del distretto di Kurnool, nell’Andhra Pradesh, India meridionale.  Forse pioverà sulla terra riarsa. O forse, il vento che soffia, sollevando i colorati sari delle contadine, inaridirà ancora di più i campi. Questo strano, freddo vento è portato dalle nuvole artificiali.  Cloud-seeding, letteralmente coltivazione di nuvole, è l’ultima possibilità, offerta dalla tecnologia, di salvare i raccolti e i moltissimi contadini oppressi dai debiti e dalla disperazione. Negli ultimi tre mesi, più di 200 si sono già tolti la vita, solo nello Stato dell’Andhra Pradesh. La tragedia sta assumendo dimensioni spaventose e il bollettino dei suicidi, qui a Kurnool, è tristemente aggiornato nelle pagine locali del Deccan Chronicle.

 Da mesi si attende il monsone: tutti i sensi tesi a captare un segnale, una manifestazione di buona volontà da parte delle divinità. Ma dal cielo qualcuno si fa beffe dei destini degli uomini: il monsone è finalmente arrivato ma, dopo neanche una settimana, l’acqua scarseggia di nuovo. E mentre a Mumbai, sulla costa occidentale, è piena emergenza per gli allagamenti che hanno interrotto tratti della linea ferroviaria, qui sono cadute solo poche gocce. Questo vento freddo è solo una farsa, così come le nuvole artificiali che ci corrono beffarde sopra le teste.

Il bracciante Kamal ha trascorso l’intera mattinata ad innaffiare il solco che gli ha assegnato il suo landlord, signore della terra, come si chiama qui il proprietaria terriero; 100 metri ad andare e 100 a tornare. Intorno a lui si agitano altri contadini, trasportando l’acqua in caraffe di plastica colorata. Avanti e indietro, decine, centinaia di volte. “Non possiamo fermarci mai, questo è il momento più delicato” ci spiega Kamal. “ I semi sono appena stati piantati e il campo deve essere sempre umido”, prosegue. “Appena sorge il sole dobbiamo continuare a  bagnare fino al tramonto”. Qualcuno passa la notte ai bordi del campo, sotto tende improvvisate: sono gli stagionali che vengono da fuori e seguono il lavoro, trasferendosi continuamente di villaggio in villaggio. Da rompersi la schiena. Per un tozzo di pane o poco più. Il salario giornaliero, nella stagione buona, quando l’offerta di lavoro è alta,  è di 30 rupie per gli uomini, 20 per le donne. “Perché gli uomini riescono a trasportare più acqua” spiega Kamal. Tradotto in euro: circa 50 centesimi a testa, per 12-14 ore di lavoro durissimo “Certo, è pesante: facciamo i chilometri su questa striscia di terra, avanti e indietro. E non è detto che riusciamo a salvare il raccolto. Se il monsone dovesse tardare ancora…”. Guarda in alto e scuote la testa, sconsolato: “Non pioverà neppure oggi”. “Che cosa crescerà qui?” Gli domando, mentre si allontana “Cipolle”. “Forse”.

A Pathikonda, un misero villaggio vicino a Kurnool, nell’Andhra Pradesh, sud dell’India, moglie  e marito, entrambi contadini, si sono suicidati ingerendo pesticida. Lei, One Khasim, 40 anni, è morta subito, lui, Fakuddin, 45 anni, è spirato, qualche ora dopo in ospedale, scosso da orribili convulsioni.  Possedevano 4 acri di terra dove coltivavano noccioline e pomodori. In pochi mesi hanno accumulato un debito di più di 15 mila rupie (circa 300 euro), dopo un prestito ottenuto l’anno prima da un usuraio locale che, come garanzia, ha chiesto in cambio il contratto di proprietà della terra.

Dopo una stagione di siccità che ha compromesso i raccolti, l’usuraio si è preso il campo e ha anche preteso il pagamento degli interessi che si erano gonfiati come lievito di pane. Così One e Fakuddin Khasim si sono ritrovati pieni di debiti e senza più terra. E si sono uccisi ingerendo quel pesticida che avrebbe dovuto salvarli e che invece ha contribuito, anche quello pesantemente, ad aggravare il bilancio familiare.

Negli ultimi tre mesi, sono più di 200 i contadini che si sono tolti la vita, solo nello Stato dell’Andhra Pradesh. Negli stati dell’India centrale la tragedia sta assumendo proporzioni spaventose e il bollettino è sempre più drammatico.  In questi giorni  ci sono stati ancora suicidi di contadini nei distretti di Chittoor, Khamman, e nel vicino Anantapur. All’inizio di agosto, nel villaggio di Somayilapalle, 53 capifamiglia si sono uccisi perché oppressi da debiti impagabili. Solo qui, nello stato dell’Andhra Pradesh, le autorità locali hanno registrato 3mila suicidi negli ultimi sei anni. E non è solo colpa del monsone che non arriva, o che arriva in ritardo: la siccità è soltanto una delle aggravanti. Queste ondate di suicidi sono infatti da collegare anche alla nuova campagna di vendita delle aziende straniere, cui il governo indiano ha concesso il nulla osta nella distribuzione, di semi ibridi e transgenici, sementi sterili che vanno ricomprate ogni anno.

Ne sa qualcosa la vedova del contadino Ramannah, nel villaggio di Kosigi, vicino al confine con la stato del Karnataka. Ci viene incontro, stringendosi al sari i suoi due bambini: ci fa accomodare su una stuoia, nella povera casa di mattoni col tetto in lamiera, e ci offre una tazza di chai. “Ci hanno convinto ad usare sementi speciali e pesticidi. All’inizio prendevamo tutto a credito e lo Stato ci concedeva prestiti a basso interesse. Poi i sussidi sono stati tagliati e la nostra famiglia ha cominciato ad indebitarsi con gli usurai” spiega. “Negli ultimi 3-4 anni i monsoni hanno fatto le bizze, compromettendo le coltivazioni. Così per noi, l’unica possibilità è stata quella di tentare una seconda semina.  I semi abbiamo dovuto ricomprarli, perché quelli utilizzati nella prima semina non erano più buoni. Non avevamo contanti a disposizione e così li abbiamo chiesti in prestito”.  Poi scoppia a piangere, inconsolabile.

“Si è impiccato”, sussurrano i vicini che intanto hanno invaso la piccola stanza che occupa l’intera abitazione. Anche loro danno la colpa ai debiti, al ritardo del monsone, al cattivo raccolto. Ma insieme al fatalismo e all’atavica rassegnazione di chi è esposto ai capricci del cielo, c’è anche un moto di rabbia, un rancore che finora è rimasto sopito. E che solleva il velo sopra una  rete di responsabilità che poco hanno a che fare con le bizzarre cattiverie delle divinità.

“Non ci aiuta nessuno, siamo nelle mani dei landlord, degli usurai e dei Boia” interviene un ragazzo tutto pelle e ossa, incalzato da un anziano senza denti e dagli occhi lucidi, febbricitanti: “Per una famiglia che va in rovina, ce n’è un’altra che fa festa”.

Chi ci guadagna, qui nei distretti di Kurloo e di Anantapur,  sono infatti gli usurai e i landlord che appartengono entrambi alla potentissima casta dei “Boia”, una delle miriadi di sottocaste in cui è suddivisa la società indiana. I Boia rivendicano da sempre un diritto di superiorità acquisita sulle caste inferiori dei Mala e dei Madiga, che appartengono al più grande raggruppamento dei dalit, gli intoccabili. Partoriti dai piedi del dio Bramha, talmente schifato al pensiero di un contatto con loro da averli  concepiti attraverso le parti meno nobili del suo corpo, i dalit sono la feccia della società. Poveri e miserabili per loro stessa colpa, secondo la religione hinduista, per essere stati malvagi e indegni nella loro esistenza precedente. Una sorta di contrappasso da scontare in vita, invece che nell’aldilà, attraverso un ciclo di reincarnazioni in cui si nasce in base a quel che si è stati nella vita precedente. Non è un caso che molti dalit cerchino una salvezza da questa condanna a vita convertendosi al cristianesimo o al buddismo.

Resta il fatto che One e Fakuddin Khasim erano dalit, così come il contadino Ramannah e la sua famiglia: sottomessi al volere di signorotti locali che dominano e controllano ogni più  piccolo vaso capillare dei villaggi e delle città. Spietati Don Rodrigo  che godono dell’impunità più assoluta, amici di politici, avvocati e poliziotti. Qui si chiamano“Boia”, in altre zone prendono la denominazione “Reddi”, questi ultimi identificabili, nei loro privilegi di casta e di clan famigliare, anche attraverso i loro cognomi.

A confermare questa rete di criminalità “legalizzata” che opera alla luce del sole è Nallugotla Devavara, sindacalista e attivista della Organizzazione non governativa indiana SDRWC (Society for teh Developement of rural women and children) che ha trascorso 30 anni della sua vita come preside in una scuola statale di Kosigi: “Qui ha dominato per decenni la famiglia Satinnarah, terrorizzando e minacciando la popolazione, violentando le donne. Decidevano tutto, la politica locale, le assunzioni nelle cariche amministrative, la costruzione di case e strade. La famiglia Satinnarah appartiene alla casta dei Boia e i Boia determinano l’esito delle elezioni locali, controllano i Panjati, le assemblee di base dei villaggi, posseggono la terra e il denaro. Sono i veri signori del nostro destino ”. 

Anche Hassim, che incontriamo nella parrocchia di St John, a pochi chilometri da Kurnool, è un dalit, un intoccabile. Fino a qualche mese fa faceva il contadino a Masapetada, un misero villaggio vicino. Aveva anche lui un piccolo appezzamento di terra che ha dovuto ipotecare per pagare il ricovero della figlia Hassina, 18 anni, 2 occhi grandi spauriti,  e una gravissima malformazione cardiaca. L’operazione è andata bene ma Hassim si trova ora indebitato: così si è fatto prestare  il denaro dal landlord del suo villaggio. Il tasso d’interesse è altissimo e Hassim dovrà pagare per il resto dei suoi giorni. E, quanto alla speranza di poter riavere la terra una volta pagato il prestito, manco a parlarne. Anche a lui è stato requisito il contratto di proprietà e concesso un anno di tempo. Mancano pochi mesi allo scadere del temine e Hassim i soldi non ce li ha. Anzi, gliene occorrerebbero altri per la figlia, che ha bisogno di essere operata di nuovo. La guarda e le scosta con tenerezza una ciocca di capelli: “Una figlia così debole non la vuole nessuno, e anche se qualcuno la volesse non avrei la dote da regalarle”.

Non lo sfiora neppure l’idea di chiedere alla banca: “quelli pretendono un sacco di documenti, vogliono garanzie e un referente potente che ti presenti. E poi anche lì gli interessi sui prestiti sono alti.

“Un ricco può comprare a rate una Mercedes al 4% ma un contadino, per il trattore, deve pagare interessi del 15%” ha dichiarato il primo ministro dell’Andhra Pradesh, Mr  Rajasekhara Reddy.

 Intanto Hassim e i milioni di contadini nelle sue condizioni, si disperano. “Io non ce la faccio più. Capisco tutti quelli che decidono di farla finita”, abbassa la voce per non farsi sentire dalla figlia. “Forse, vendendo un rene…. Un mercante d’organi lo trovo subito. Quello sì”. 

Ci sono alberghi e ristoranti in cui, come nel Sudafrica dell’apartheid,  i Mala e i Maliga non possono sedere allo stesso tavolo né bere o mangiare usando gli stessi bicchieri e piatti dei Boia. Nel cuore di tenebre dell’India rurale,  ci sono villaggi i cui pozzi sono vietati ai dalit perché, con il solo contatto, ne potrebbero contaminare l’acqua. Ma a nessuno, nel florido mercato degli organi,  interesserà sapere se il rene di un intoccabile  di nome Hassim sia da considerarsi impuro.